Dove c’è perfezione, non c’è storia. Le imperfezioni sono il vero segno dell’evoluzione e del possibile, come intuì Charles Darwin, e Homo sapiens ne è un esempio. Il nostro corpo, il nostro DNA e il nostro cervello sono pieni di imperfezioni che hanno funzionato. Forse sono così creativi proprio perché imperfetti. Ma quali sono le conseguenze dell’umana imperfezione nel nostro modo di concepire e organizzare le relazioni sociali e quelle con l’ambiente e il mondo che ci circonda? Ecco un esempio. Ricerche scientifiche recenti mostrano quanto la mente umana sia profondamente ambivalente nel suo distinguere un “noi” protettivo da “l’altro” estraneo e potenzialmente minaccioso. Questa attitudine nel passato aveva un senso, oggi al contrario rende purtroppo attraenti (e ricorrenti) il razzismo e il tribalismo fisico o digitale che sia. Dobbiamo imparare a convivere con le nostre imperfezioni e trasformare la fragilità in opportunità.
La criminologia è stata definita la “scienza del male”. Ma come si fa a convivere con il male? E quali spiegazioni si possono dare sia per i delitti che più ci turbano – i figlicidi materni, per esempio, o le gesta efferate dei serial killer – sia per quelli più “normali”, dalla microcriminalità dei disperati ai crimini dei “colletti bianchi”? I delitti più efferati si possono considerare eccezioni, mentre rimane una domanda inquietante anche per un criminologo “di lungo corso”: perché interi popoli o comunque centinaia di migliaia di persone comuni possono rendersi responsabili di massacri e poi tornare alle loro vite come se nulla fosse?
La risposta si può trovare soprattutto analizzando il nazismo, inteso come matrice di tutti gli “altrismi”, cioè i pregiudizi verso chi si considera “diverso”. Da qui deriva l’interpretazione che vede nella diversità la causa anche del delitto: la criminologia dei diversi, appunto, che studia i crimini dei normali.
“Mettiti nei miei panni!”, “Cosa faresti al mio posto?”. A tutti è capitato di sentirsi rivolgere una richiesta di questo tipo da qualcuno che desiderava ricevere un consiglio. Quello che forse non abbiamo mai immaginato è che tale appello fosse indirizzato a un vasto numero di aree cerebrali con funzioni e caratteristiche assai differenti. A quasi trent’anni dalla loro scoperta, oggi sappiamo che i neuroni specchio non sono una bizzarria di una piccola porzione della corteccia, ma riflettono un meccanismo fondamentale di funzionamento del cervello. Sono infatti alla base della nostra facoltà di comprendere le azioni e le emozioni altrui. Si tratta di una comprensione particolare, che avviene dall’interno. Sotto certi aspetti, ciò di cui facciamo esperienza quando osserviamo gli altri agire o provare un’emozione non è diverso da quando agiamo o proviamo un’emozione in prima persona. Un neuroscienziato e un filosofo ci parlano del nostro “essere sociali”.
“Vietato il gioco del pallone.” Tutto è iniziato così: la chiusura dei cortili, l’impossibilità di tornare da scuola a piedi da soli. Prima le metropoli, poi i piccoli comuni sono stati invasi dalla paura di ciò che poteva accadere ai figli. La crisi della comunità educante, la paranoicizzazione dell’altro, la società del narcisismo e dell’individualismo imperante sono davvero un prodotto di internet e dello smodato utilizzo dello smartphone da parte degli adolescenti? Per comprendere i significati evolutivi e i rischi delle esperienze digitali giovanili, è necessario interessarsi ai miti affettivi familiari e sociali che hanno presidiato la crescita delle nuove generazioni. Da questi si può partire per comprendere le forme del profondo disagio adolescenziale odierno. A cominciare dal sempre più diffuso ritiro sociale, dal sexting e dal cyberbullismo. Da questi si deve partire per alleviare la solitudine e le crisi di una generazione iperconnessa.